Filosofo o filosofo consulente?

A cosa serve un filosofo ovvero la filosofia? A molte cose. Le prime che mi vengono in mente sono: chiarire il pensiero, definire i concetti, stabilire i limiti di validità di una teoria o di un concetto, stabilire se le cose dette o scritte sono vere e a quali condizioni, quali sono le cose giuste e le cose sbagliate, chiarire il senso delle cose, dare un senso alla propria identità… Come si vede, nulla di fumoso o inutile, contrariamente a quanto spesso alcuni pensano. Sto scrivendo a partire dall’alone di chiacchiere e commenti che ha suscitato in diversi luoghi il recente post di Andreas Voigt  “Abbiamo bisogno di filosofi” in cui l’autore mi ha fatto la cortesia di nominarmi in quanto filosofo. E pertanto credo sia necessario, prima di eventualmente dire come, perché e in che modo la filosofia (anzi le pratiche filosofiche, come vedremo) possa essere  utile a un’azienda, argomento su cui ho peraltro scritto insieme a Neri Pollastri un libro intitolato Il filosofo in azienda di cui puoi avere una presentazione in www.ilfilosofoinazienda.eu , fare un po’ di chiarezza su cosa significhi essere un filosofo. Per me essere un filosofo significa fare filosofia, ovvero praticarla: hai capito perché parlo di pratiche filosofiche? Spero di si: non si tratta di somministrare a Tizio o a Caio o alla tal Compagnia una qualche mia filosofia, anche se in parte non se ne può mai fare del tutto a meno, ma più che altro di aiutare i suddetti a essere a loro volta filosofi, ovvero a fare filosofia. Cioè a praticarla. La professionalità in gioco è quella del filosofo consulente, o consulente filosofico (in inglese suona  philosophical practicioner), che è abbastanza nuova e risale a non più di trent’anni fa. Siccome tutto si gioca a partire dal senso di questa disciplina, per mettere qualche paletto credo che la cosa migliore sia pubblicare qui per te la voce Consulenza Filosofica del Dizionario Internazionale di Psicoterapia a cura di Giorgio Nardone e Alessandro Salvini. Con Nardone mi sono formato come Communication and strategic coach  (la certificazione è dell’MRI di Palo Alto, di cui il CTS di Nardone, allievo di Paul Watzlawick,  è una specie di filiale) e la voce in questione l’ho scritta io. Vi do la versione originale, non so se hanno fatto qualche modifica in editing. Comunque, è di mio pugno. Eccola:

Consulenza filosofica. Espressione nata in Germania nel 1981, quando il filosofo G. Achenbach prese a ricevere nel suo studio «consultanti» (cioè, nel suo linguaggio, ‘ospiti’) per rispondere alle loro domande e parlare dei loro problemi: dalle separazioni allo sgomento di fronte alla morte, dall’interrogazione sul senso della vita a un particolare dilemma morale, dalle difficoltà ad accettare o gestire l’alienazione prodotta dal lavoro alle interrogazioni più o meno ciniche o romantiche sull’amore. Il “metodo” utilizzato da Achenbach – che peraltro nega di avere un metodo – si basa su un incontro aperto e dichiaratamente privo di preconcetti o pregiudizi, con un conseguente dialogo filosoficamente orientato dal punto di vista degli strumenti e delle tecniche discorsive utilizzate. Accoglienza, rispetto del pensiero e del vivere altrui, accettazione dell’altro, sincerità e pari dignità del dire di ambedue i dialoganti, amore e ricerca della verità fanno parte dell’approccio. Dall’incipit achenbachiano la nuova “pratica filosofica” si è sviluppata abbastanza velocemente in tutti i paesi occidentali, arrivando fino in Cina e India.  Le caratteristiche distintive della disciplina, al di là dei già citati tratti tipici del dialogo achembachiano, sono abbastanza controverse. Per esempio S. Schuster non esita a definire la  consulenza filosofica e il lavoro del filosofo consulente come una «cura filosofica del sé» in grado di indurre effetti di benessere e risoluzione di malesseri mentali, pur condividendo peraltro con Achenbach una visione molto negativa delle psicoterapie. Per R. Lahav, invece, la consulenza filosofica  è fondamentalmente una riflessione e riconfigurazione delle “visioni del mondo” delle persone che può indurre effetti terapeutici, pur senza averne l’intenzione. Molti consulenti, inoltre, insistono su un effetto o mossa simile all’epokè (sospensione) husserliana, che consente una sorta di “sollevamento” o distacco dalla «identificazione col problema», secondo un’espressione di A. Prins-Bakker. E se molti consulenti prendono le distanze dalla psicoterapia (in particolare dall’“intenzionalità” terapeutica), vi è chi non esita a pensare la consulenza filosofica come vicina e intrecciata alla psicoterapia, come fanno per esempio L. Marinoff, che enfatizza l’orientamento al problem solving, o il cinese Chung-Ying Chen, che sostiene una pratica a forte connotazione psicoanalitica. Consimili divergenze di vedute avvengono con altrettanta problematicità anche per quanto riguarda altri aspetti, tra cui il grado di neutralità del consulente, l’importanza dell’educazione al filosofare e l’orientamento alla ricerca della saggezza, per non citare che i più rilevanti. Al di là delle divergenze, tuttavia, è possibile ravvisare alcuni elementi comuni a tutte le pratiche messe in atto da ciascun filosofo consulente. In primo luogo, la volontà di praticare quell’assenza di pregiudizi che da una parte innerva gran parte del lavoro di Achenbach e dall’altra costituisce l’anima stessa della filosofia: filosofare, essere filosofo, significa infatti, in primo luogo, interrogare, mettere in discussione tutto, compreso il discorso stesso che si sta facendo; questa volontà di non porre limiti al meta-discorso è probabilmente una caratteristica distintiva abbastanza potente da separare la consulenza filosofica  (e la filosofia) da qualsiasi altro discorso, scientifico e non, comprese le discipline psicoterapeutiche. Un’altra caratteristica condivisa generalmente da tutti i consulenti filosofici, è un’intenzionalità chiarificatrice, ovvero, per usare termini più forti, un ideale regolativo che valorizza la verità come norma della credenza e dell’azione (va peraltro detto che l’idea o il concetto stesso di verità a cui ci si riferisce non sono affatto scontati ma, anzi, sempre problematici); questa intenzione chiarificatrice è generalmente valorizzata  e vista come un ampliamento degli orizzonti e delle potenzialità, come una liberazione, in definitiva un bene (concetto filosofico forte e consustanziale alla filosofia stessa), il che sembrerebbe implicare un collegamento, o dei rapporti di reciproca implicazione, tra gnoseologia ed etica. Inoltre, non si può evitare di notare l’importanza del lavoro sul concetto e sul pensiero produttivo di idee: il percorso è in generale soprattutto cognitivo e il lavoro sulle emozioni e le percezioni può avvenire solo per il medium del ragionamento e del discorso. L’orientamento pratico-operativo della consulenza filosofica  ha conseguenze rilevanti sull’importanza che nella disciplina ha il particolare – in contrasto con il privilegio dell’universale tipico di molta filosofia tradizionale – e infatti il processo si attiva sempre a partire da  un caso singolo, sia esso un racconto, un fatto, un esempio, una richiesta o un’emozione. Sta proprio qui la ragione per cui nella consulenza filosofica sembra sia sempre in gioco qualcosa dell’ordine del pensare in modo sempre nuovo, creativo, rivolto alla creazione di nuovi concetti, come se la comprensione dell’esistente, dell’esperienza, avesse valore solo quando venga ricompresa in cornici concettuali più ampie, profonde e potenti di quelle da cui si era partiti.

Infine, se proprio vuoi sapere subito qualcosa su a cosa possa servire la filosofia in un’azienda consiglio quest’articolo, che ha il grande pregio di citarmi (eh! eh!):  In azienda ci vuole più filosofia – a cura di Sara Malaspina.